Novembre si sa, è periodo in cui la tristezza e il grigiore della pioggia e di un sole spesso timido e svogliato, ci induce ad uno strano umore, che se non si può definire proprio “pessimo”, come dopo la sconfitta della squadra del cuore o il risveglio dopo una serata romantica rivelatasi piuttosto diversa dalle aspettative, è comunque di un grigio profondo.
Come testimonia il nome inglese della stagione “fall”, si cade spesso in spazi acromatici in cui si vede e si racconta la realtà con varianti che vanno dal grigio piombo al grigio cadetto, sfiorando alcune delle più caratteristiche della grisaglia (dal francese grisaille: ancora il grigio) più classica.
Ecco allora che si delinea l’atmosfera in cui si è consumato il “Pranzo da re” di Cavallito & Lamacchia, due critici e storyteller enogastronomici, che hanno raccontato in un articolo del 30 novembre l’avventura culinaria al Ristorante Solferino.
Ma perché ne scriviamo? Per una serie di ragioni.
Prima fra tutte, ne scriveremo più avanti, una maleducata e gratuita critica alla nostra clientela, che da sempre consideriamo asset fondamentale del nostro lavoro.
Sinceramente ci è spiaciuto moltissimo leggere che non abbiano gradito le nostre proposte, le portate e i vini della carta.
E’ davvero un dispiacere immenso pensare che possano non aver assaporato a pieno i gusti che abbiamo provato a raccogliere nel capunet.
E non possiamo non cospargerci il capo di cenere per questo delitto a tavola, consci di aver potuto incrinare la costruzione gastronomica della nostra proposta con un errore che, certo può capitare, ma che non vorremmo mai più ripetere.
Ma il motivo di queste righe va oltre questa valutazione, indotto da qualche altra considerazione dell’articolo, che forse ha provato a raccontare la realtà del Solferino in maniera un po’ frettolosa, addirittura come l’enunciato di un Teorema già scritto.
Già, fa male leggere della nostra “Battuta di carne cruda al coltello”, semplicemente declassata con un rapido quanto sgarbato “ha i contorni tondi del coppapasta”.
Fa male perché è una portata nostro vessillo, visto che pur approdando a tavola in piccole forme rotonde, è in quell’istante solo all’inizio del suo viaggio gastronomico, che ne prevede poi proprio davanti alla clientela la lavorazione con olio, sale, pepe e limone, per essere capace di elevarsi ad un sapore non banale e diretto.
Forse è proprio colpa di un semplice coppapasta, se anche per le altre portate non abbiamo potuto leggere giudizi lusinghieri.
Come per gli spaghetti al brucio, altro piatto importante per il nostro locale, forte di una tradizione toscana che è rimasta con i suoi profumi e le sue fragranze nelle pareti stesse del locale.
Ricordiamo una serata di qualche anno fa, in cui addirittura i nostri spaghetti si sono ritrovati a duellare con i pugliesissimi “spaghetti all’assassina”, rivelando radici comuni, ma una caratterizzazione del sapore molto differente.
Pensiamo sinceramente non si tratti di una critica indigesta, di una “pagellina” imprevista, ma di un atteggiamento di insofferenza verso un lavoro duro di ricerca e di confronto che ogni giorno ci porta a raccontare sulla nostra tavola la cucina che progettiamo.
Spiace moltissimo che, in un periodo grigio, ma comunque florido per un re della tavola come il tartufo, non sia stata scritta parola alcuna per la articolata e ricercatissima proposta che occupa metà del nostro menu autunnale.
E veniamo all’ambiente ed alla clientela, al sarcastico richiamo ad “una atmosfera vagamente primi anni ‘90” (al Solferino non ci sono cameriere con le tragiche spalline, ne polverosi doppiopetto con bottoni dorati), una clientela “azzimata” (preferite forse tenute più casual?), “un po’ turistica” (non sarà forse un po’ di chiusura mentale allo straniero, la vostra?), persino un po’ “Donna della Domenica”.
Proprio la “Donna della Domenica” di Fruttero e Lucentini, un magma di personaggi che si perdono nella Torino degli anni ’60 e ’70 (attenzione C & L, anni ’70 che poco hanno a che fare con i debordanti e stucchevoli fasti degli anni ’90 che tanto vi stanno a cuore in questo scritto), sembra essere imprimatur definitivo di una bocciatura da 5- che francamente ci sta stretta.
Chiudiamo con un filo di ironia (in fondo sono solo pagelline, vero?) verso i nostri due severi censori.
Nella “Donna della Domenica”, il commissario Santamaria/Mastroianni, si trova a dover combattere con un unico strano indizio: un antico proverbio piemontese che recita
“La cativa lavandera a treuva mai la bon-a péra”
Sarà ancora valido, anche in questa occasione, questo antico adagio?