C’è un che di speciale, a pensarci bene, nell’incontrare un frammento del proprio passato seduto a un tavolo del Ristorante Solferino. Un simbolo ancora vibrante, un amuleto che ha conservato intatto il suo potere magico. E così, nel mezzo del tramestio torinese, reso più febbrile da una trasmissione televisiva in registrazione all’INALPI Arena – la chiamano Suzuki Jukebox – La notte delle Hit, un nome che suona come un telecomando per la memoria – è apparso Lee John. Il nome, forse, ai più giovani dirà poco. Ma per un’intera generazione, quella che oggi chiamiamo silver e che allora era semplicemente giovane, quel nome era il passaporto per un altrove fatto di luci stroboscopiche, suoni sintetici e un’eleganza sfacciata, quasi divina.
Leee John, con i suoi Imagination. Personaggio che sembrava disegnato per abitare un sogno, non una città. E vederlo lì, a tavola, crea un cortocircuito temporale, un’increspatura sulla superficie liscia del presente. Perché la sua musica, ammettiamolo, non era forse la più complessa, non ambiva all’eternità dei capolavori, ma aveva una qualità infinitamente più rara: era una colonna sonora perfetta. L’esatta partitura di quel preciso istante del mondo, gli anni ’80, quando tutto sembrava possibile, soprattutto l’eccesso.
Erano anni così, quelli. Anni in cui a tavola si celebravano riti che oggi ci appaiono bizzarri, quasi esoterici. Anni in cui il salmone, rigorosamente affumicato, finiva ovunque, quasi fosse una polvere magica, e sposava la panna in un connubio che pareva il non plus ultra della raffinatezza. I tegolini panna e salmone, certo. Ma anche le penne alla vodka, con quel loro finto rossore da tramonto chimico. Il risotto allo champagne, che portava in tavola l’illusione di un lusso perenne. E prima di tutto, come un totem immancabile, il cocktail di gamberi in salsa rosa, servito in una coppa da Martini che faceva sentire tutti un po’ James Bond a una festa a cui non era stato invitato. Era una cucina che non aveva paura di osare, di essere appariscente, proprio come la musica di Lee John.
Lui, con quel suo falsetto androgino, quasi ultraterreno, e quell’abbigliamento da centurione glam sbarcato da una galassia lontana. Just an Illusion. Cantava. Solo un’illusione. E forse era proprio quella la chiave. Gli Imagination non facevano musica, costruivano illusioni. Prendevano il soul e il funk, li spogliavano della loro carnalità terrena e li rivestivano di paillettes e sintetizzatori. Il risultato era un suono levigato, scintillante, una specie di soul da discoteca per viaggiatori interstellari. Body Talk, Music and Lights. Titoli che erano manifesti. Il corpo, la musica, le luci. Non serviva altro. Era un’estetica nuova, un mondo che si bastava.

By Mairie d’Olonne sur Mer – Own work, CC BY-SA 4.0
E poi, i video. Perché lì accadde la vera rivoluzione. Furono tra i primi a capire che la musica non si doveva più solo ascoltare, ma si doveva vedere. I loro videoclip erano messe in scena opulente, coreografie ieratiche, costumi che sfidavano la fisica e il buon gusto. Erano piccoli film, sogni di tre minuti che ipnotizzavano una generazione davanti a schermi televisivi ancora a tubo catodico. Creavano un immaginario. E in quell’immaginario, Lee John era il sommo sacerdote di un rito collettivo fatto di evasione pura.
Vederlo oggi, a Torino, mentre ordina qualcosa di molto più sobrio di un risotto allo champagne, fa pensare a questo. Fa pensare a quei ragazzi di allora, oggi sessantenni, che hanno ballato le sue canzoni in discoteche dai nomi improbabili. Ragazzi che forse, proprio quella sera, mentre mangiavano i loro piatti lussureggianti, sognavano di essere altrove, magari sotto le luci di un club londinese, avvolti da quel suono che era insieme esotico e familiare.
La memoria è una cosa strana. Non conserva i fatti, ma le sensazioni. E la sensazione di quegli anni era una leggerezza colorata, un ottimismo quasi ingenuo, la convinzione che bastasse un ritmo giusto e un vestito eccentrico per essere felici. Forse non era irresistibile, quella stagione, no. Ma era viva, disperatamente viva. E Lee John, seduto a quel tavolo, non è solo un cantante venuto a registrare uno show. È la persistenza di quell’illusione. La prova vivente che certe canzoni, come certi sapori, non svaniscono. Restano lì, addormentate, in attesa del jukebox giusto per tornare a farci ballare. Anche solo per un istante, dentro la nostra testa.